image20 anni fa la giornalista e il cameraman venivano assassinati a Mogadiscio. Rifiuti radioattivi, armi, servizi segreti, mafia e Gladio. Una tipica storia italiana. di Franco Fracassi

Due colpi alla testa sparati da un Ak 47 calibro 7,62. Come due informazioni emerse oltre dieci anni dopo: un detenuto che riferisce quello che gli ha rivelato un tale conosciuto in carcere e un cablogramma in codice trasmesso dai nostri servizi segreti militari e un agente sotto copertura operativo a migliaia di chilometri di distanza. Un riassunto scarno che condensa tutto il mistero che ancora aleggia intorno a un duplice omicidio. Sono passati vent’anni dall’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. La prima era una giornalista d’assalto del Tg3. Il secondo, un cameraman abituato alle zone di guerra. Sulla loro strada un enorme traffico di armi e di rifiuti tossici che coinvolgeva decine di Paesi, tra cui l’Italia e gli Stati Uniti. Renderlo pubblico avrebbe significato smantellare una delle più capillari reti segrete tessute negli ultimi decenni da servizi segreti, criminalità organizzata, banche e apparati militari. Troppo grande per farla implodere, troppo grande per lasciare in vita Ilaria e Miran.

Chi vi scrive conosceva Ilaria, e per anni ha cercato ostinatamente attraverso il proprio lavoro di dare un senso a quella morte. Ho indagato su delle strane navi somale, in realtà rimaste di proprietà italiana, ho indagato su traffici di armi illegali, su politici corrotti, su militari infedeli. L’ho fatto insieme al mio collega Roberto Cavagnaro. L’ho fatto grazie all’aiuto decisivo di Giorgio e Luciana, i genitori di Ilaria. Purtroppo non è bastato. La vicenda era enormemente più grande. E solo oggi, dopo vent’anni, si iniziano a intravederne i contorni.

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Ilaria Alpi lavorava per la redazione esteri del Tg3. Parlava correntemente arabo. Lingua appresa al Cairo, in Egitto.

Il fatto. Ore 15.30, Mogadiscio nord, capitale della Somalia. Ilaria e Miran escono dall’hotel Hamana a bordo di un Pk Toyota. All’auto viene tagliata la strada da una Land Rover blu con a bordo sette somali armati. Mirian viene colpito alla tempia sinistra e muore sul colpo. A Ilaria sparano a bruciapelo dietro la nuca. Morirà solo due ore dopo, abbandonata sul retro dell’auto di un altro italiano e mai soccorsa da un’equipe medica.

Dell’omicidio viene incolpato e processato un solo cittadino somalo. Nel frattempo: tre taccuini di Ilaria spariscono mentre vengono trasportati dalla italiana portaerei Garibaldi, spariscono alcune cassette girate da Miran, viene fatta un’autopsia sbagliata, i carabinieri presenti in forze a Mogadiscio non svolgono nessuna indagine sul doppio omicidio, i nostri servizi segreti e il ministero degli Esteri non offrono alcuna collaborazione alle indagini, il magistrato a cui viene affidata l’inchiesta perde tempo, indaga a singhiozzo, ignora indizi importanti.

Alcuni giornalisti indagano a fondo sulla questione, facendo emergere stranezze e il chiaro ruolo di un traffico d’armi illegale tra l’Italia e la Somalia. Come spesso accade in Italia, tali informazioni vengono ignorate e non finiscono in alcuna inchiesta ufficiale.

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L’ultima intervista di Ilaria Alpi, fatta nel nord della Somalia (Bosaso) al sultano Bogor.

Torniamo alle due informazioni chiave per iniziare a svelare l’arcano dietro l’assassinio. È il 2005. L’ex ‘ndranghetista Francesco Fonti è da un po’ che parla col magistrato. Tra una rivelazione sull’organizzazione criminale e l’altra dice: «C’è un tale, conosciuto in carcere, che mi ha parlato di un traffico di rifiuti radioattivi con la Somalia».

Improvvisamente iniziano a inserirsi nelle caselle giuste una serie di elementi che erano emersi nel corso delle indagini giornalistiche, e che non avevano ancora avuto collocazione. Si era saputo che un’autostrada costruita dalla cooperazione italiana nel nord della Somalia. Quattrocentosessanta chilometri di asfalto che portavano dal nulla al nulla. C’erano state soffiate di informatori che sostenevano che sotto il bitume erano stati sotterrati fusti di rifiuti chimici. Poi, si era parlato di un fantomatico “progetto Urano”, di cui si era occupato un agente del Sismi (Vincenzo Li Causi), ucciso in Somalia il 12 novembre 1993. E ancora, le denunce di Greenpeace, che accusava diversi Paesi europei e gli Stati Uniti di aver utilizzato la Somalia come discarica per i rifiuti pericolosi.

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Tecnici delle Nazioni Unite cercano di mettere in sicurezza uno delle migliaia di fusti colmi di scorie chimiche e radioattive scaricati sulle coste somale da molti Paesi occidentali.

Il quadro che inizia ad emergere è quello di uno scambio armi-rifiuti. In Somalia nel 1994 era in corso una guerra civile. E non solo. Nel Paese africano erano presenti in forze da un anno truppe internazionali, tra cui militari italiani e statunitensi. Le potenze occidentali avrebbero imposto alle fazioni somale in lotta l’accoglimento indiscriminato di ogni sorta di rifiuti in cambio della fornitura di armi (illegale) senza le quali la guerra civile non si sarebbe potuta combattere.

Il secondo indizio è contenuto in un cablogramma trasmesso il 14 marzo 1994 dal comando carabinieri del Sios di La Spezia al servizio segreto della Marina militare, organo esterno del Sismi. Sei giorni prima dell’agguato, e il giorno stesso della partenza di Ilaria e Miran per una città del nord della Somalia. Un luogo dove i due scopriranno informazioni (forse contenute nelle videocassette sparite) che li porteranno alla morte. «Causa presenze anomale in zona Bos/Lasko (Bosaso Las Korey, nda) ordinasi Jupiter rientro immediato base I Mog. Ordinasi spostamento tattico Condor zona operativa Bravo possibile intervento».

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Una delle navi, stivate da fusti contenenti scorie radioattive, affondate nel mare a pochi chilometri dalla costa della Calabria.

Bosaso è la città in questione. Jupiter è il nome in codice per l’agente civile Giuseppe Cammisa, membro di Stay Behind, meglio noto come Gladio. In altre parole, un agente di un’organizzazione segreta messa su dalla Cia alla fine degli anni Quaranta per costituire un primo nucleo di resistenza in caso di invasione sovietica dell’Europa occidentale. Organizzazione che negli anni si era trasformata in braccio armato della Cia e dei servizi segreti europei per eliminare personaggi scomodi, mettere in pratica la strategia della tensione (stragi, terrorismo eccetera) e depistare indagini della magistratura. Una rete di cui faceva parte anche Li Causi.
Felice Casson, senatore del Pd e magistrato che scoprì l’esistenza di Gladio ha dichiarato a proposito del cablogramma: «Non posso affermare o escludere l’autenticità, servirebbe una perizia ma posso dire che è compatibile con la struttura di Gladio».
C’è di più. Due diverse indagini della magistratura italiana arrivano da strade diverse a scoprire un’incredibile vicenda di navi affondate al largo delle coste calabre. Tutte imbarcazioni stivate di fusti pieni di rifiuti radioattivi. Le due inchieste hanno altri elementi in comune: la Somalia, la vendita di armi, Gladio, la mafia, i nostri servizi segreti.
In realtà, si scoprono anche altre cose. Come, ad esempio, il coinvolgimento di funzionari della Cia coinvolti in traffici di armi e di droga (scandalo Iran-Contras). Oppure il confluire nelle inchieste Alpi-traffico dei rifiuti-traffico di armi-navi dei veleni anche dell’inchiesta sull’omicidio del giornalista siciliano Maurizio Rostagno, reo di aver filmato qualcosa che sarebbe dovuta restare segreta: la pista aerea in disuso da oltre trent’anni di Kinisia, nei dintorni di Trapani. È da lì che partivano aerei che trasportavano scorie chimiche e radioattive in Somalia. È da lì che partivano gli agenti di Gladio diretti a Mogadiscio.
Sono passati vent’anni dall’annuncio del Tg3 della morte di Ilaria e Miran. Molti hanno pianto. In tanti però, hanno gioito. Non so come sarebbe lei adesso. Quello che so è che se fosse ancora viva noi tutti saremmo più coscienti del mondo che ci circonda.

http://popoff.globalist.it/Detail_News_Display?ID=99943&typeb=0&Ilaria-e-Miran-dovevano-morire-in-nome-dello-Stato