IL VENTINOVE POI TUTTI A PIAZZALE LORETO

 

 

 

 

 

 

by Fabrizio Del Prete

Dal 2013, in Calabria, una ragazzina di 13 anni – un metro e 55 per 40 chili, insomma un piccolo fuscello – è stata ripetutamente violentata da nove persone per tre anni consecutivi.
La violentavano a turno.
La violentavano insieme.
E poi la violentavano ancora insieme.
E poi ancora a turno.
Nei colloqui che la bambina ha tenuto successivamente con gli psicologi si leggono cose raccapriccianti come queste:
“A volte li lasciavo fare.
Se mi opponevo, dicevano che non ero capace.
Mi veniva da piangere.
Mi sentivo una merda”.
“Mi sentivo una merda”.
Le bestie sono state arrestate nel settembre del 2016.
E la cosa ancora più raccapricciante – se possibile – subentra solo in quel momento.
Quando il velo di omertà del paese viene lacerato dagli inquirenti e dal coraggio estremo della piccola.
E la notizia diventa di dominio pubblico.
Eh sì.
Perché si scopre che le bestie sono paesane.
Sono conosciuti.
Sono calabresi.
Sono ITALIANI.
E allora le voci che iniziano a correre nel Paese – persino durante la fiaccolata dedicata alla vittima e lasciata praticamente deserta – sono queste:
“Se l’è cercata!”
“Ci dispiace per la famiglia, ma non doveva mettersi in quella situazione.”
“Sapevamo che era una ragazza un po’ movimentata.”
“Movimentata? Una che non sa stare al posto suo.”
Voci, parole, espressioni e pensieri che hanno VIOLENTATO quella ragazzina per l’ennesima volta.
Vi racconto questa storia proprio oggi, che tiene banco il “dibattito” sulle bestie straniere che vengono a “violentare le nostre donne”.
Come se uno stupro non fosse una aberrazione sempre e comunque.
Come se importasse solo del colore della pelle e non del reato in quanto tale.

Considerando la storia di Franca Viola che trovate qualche post prima, direi che non è cambiato molto.

Sinceramente ritengo assai più abominevole uno stupro perpetrato da un conoscente, un compaesano, peggio ancora da un familiare. Perchè mentre con uno straniero potresti non averci più a che fare, potrebbe cambiare città e con adeguate cure magari ti riprendi la vita, pensate a che razza di voragine si apre se lo stupratore fosse tuo padre o tuo zio. Dovunque vai la parentela te la porti sempre dietro.
Non c’è bisogno che vi dica che se fosse per me a sta gente gli farei ingoiare i propri testicoli.

Brennero, agosto 2017
L’Austria chiude il confine a sud per cercare di bloccare il flusso di immigrati provenienti dall’Italia. Nella foto, uno dei pochi immigrati che sono riusciti a passare, viene rifocillato da una operatrice di una ONG locale.

Co tutti st’aggeggi ‘n ce se capisce più niente qui dentro.

Meditiamo che questo è

di Alessandro Giglioli

Possiamo tranquillamente infischiarcene di quello che ci dice Medici Senza Frontiere sulle condizioni dei campi di prigionia in cui sono detenuti i migranti che cercavano di raggiungere l’Europa: «Ammassati in stanze buie e sudicie, prive di ventilazione, costretti a vivere una sopra l’altro. Gli uomini costretti a correre nudi nel cortile finché collassano esausti. Le donne violentate e poi obbligate a chiamare le proprie famiglie e chiedere soldi per essere liberate. Tutte le persone che abbiamo incontrato avevano le lacrime agli occhi».

Possiamo fottercene perché avere ridotto quegli esseri umani in queste condizioni è stato – direbbe Minniti – «nell’interesse nazionale» italiano: e tutti i nostri commentatori, da Paolo Mieli in giù, hanno celebrato questa situazione come un successo, dato che così sono diminuiti gli sbarchi.

Una brava collaboratrice dell’Espresso, Francesca Mannocchi, è entrata in uno di questi campi qualche giorno fa e l’ha raccontato sull’ultimo numero del giornale per cui lavoro: «Tra le 100 e le 200 persone per stanza, nessuna possibilità di essere visti da un medico, “i libici ci trattano come animali, nessuno ci dice che cosa sarà di noi, fino a quando staremo chiusi qui e perché”». In un altro centro, riservato alle donne, una era appena morta di parto; i bambini erano denutriti, i neonati tenuti nella plastica. Ovviamente, anche qui, non si è mai visto nessun dottore.

Questo nei centri di detenzione “ufficiali”, quindi in qualche modo accessibili: ce ne sono altri gestiti direttamente dalle milizie armate dove non si può avvicinare neppure la polizia, figuriamoci i giornalisti. Su quello che può accadere lì, solo buio e silenzio.

In sostanza, prima i clan libici prendevano soldi dai migranti per trasportarli oltre il Mediterraneo; ora prendono soldi dai governi europei, Italia in testa, per tenerli chiusi nei lager.

Di solito le persone finite lì dentro erano partite dai vari Paesi dell’Africa occidentale e prima di entrare in Libia hanno attraversato il Niger.

Anche qui la Ue è intervenuta per sovvenzionare il governo e le tribù affinché bloccassero i migranti. Le varie autorità così remunerate hanno preso sul serio l’impegno e le carceri del Niger sono piene. Altrove, i militari hanno circondato i pozzi d’acqua sulle piste nel deserto, per evitare che i migranti li usassero per bere dopo aver percorso centinaia di chilometri nel deserto con temperature tra i 40 e i 50 gradi. I “passeurs” allora hanno spostato il traffico su altre piste secondarie, più pericolose perché prive di punti d’acqua. Anche qui riporto la cronaca sull’Espresso di Giacomo Zandonini, collega che il Niger lo conosce bene: «Ho scavato con le mie mani una fossa per venti persone morte di sete», gli ha raccontato un migrante.

Qualche anno fa noi occidentali giustificavamo l’intervento armato in altri Paesi – Afghanistan, Iraq, Libia – come “operazione umanitaria”: la nostra coscienza non poteva accettare che feroci dittatori insanguinassero il loro paese. Adesso invece, curiosamente, prevale “l’interesse nazionale”, quindi delle peggiori violazioni dei diritti umani in altri Paesi non ci interessiamo più. Benché questa volta ci sia l’aggravante che siamo stati noi stessi – con la svolta politica Ue per impedire gli sbarchi – a essere causa o almeno concausa di questa carneficina. Si vede che abbiamo la coscienza a giorni alterni.

«Meditate che questo è stato», ci diceva Primo Levi sull’Olocausto.

Noi invece siamo costretti a meditare che questo è, ora, adesso.

Meditiamo che questo è. O ci si sfaccia la casa, la malattia ci impedisca, i nostri nati torcano il viso da noi.