Stefano Cucchi è morto di giustizia. Per quanto amara la battuta, quella della sorella Ilaria non è semplicemente un battuta. Come darle torto. E’ la sola verità al momento. Ma è indiscutibile che il contraccolpo del <nessun colpevole> uscito dalla Corte d’Appello di Roma faccia male a tutti,  tanto a chi è usciti vincitore dalla tornata giudiziaria, ammesso e non concesso si possa parlarne in termini di vittoria e sconfitta, quanto a chi, non ha ottenuto invece, la soddisfazione che si aspettava. Le sentenze vanno rispettate anche quando non contribuiscono  a fare luce sulla verità. Ma possono avere un effetto destabilizzante, questo si, devastante e pericolosissimo. Non fugano le ombri peggiori, anzi le ingigantiscono, come quella che un cittadino possa precipitare in un vortice kafkiano e, nel volgere di una settimana, morire in attesa di giudizio, mentre è affidato alle cure dello stato, come è accaduto a questo giovane poco più che trentenne. Non ottenere una risposta convincente sulla morte di Stefano dopo cinque anni di indagini, due processi, decine di consulenze, una perizia di 200 pagine e le dichiarazioni di 150 testimoni, lascia sgomenti.  Sono troppe le occasioni che mettono a dura prova il rapporto di fiducia tra lo stato e il cittadino che dovrebbe essere osmotico e propulsivo, non di sudditanza, come troppi episodi e troppo concentrati negli ultimi tempi lascerebbero invece supporre. Nella vicenda Cucchi il male della giustizia non è la lentezza, endemico croce del nostro ordinamento civile, ma guardando al penale l’incapacità di fornire una verità giudiziaria che si sovrapponga senza sbavature a quella dei fatti. Non c’è una risposta sulla fine di un cittadino arrestato perché trovato in possesso di 29 grammi di hashish e morto dopo essere affidato allo stato : prima ai carabinieri poi alla polizia penitenziaria, infine alla struttura protetta dell’ospedale Pertini di Roma, protetta da chi o da cosa  Dio solo lo sa.  Stefano non è morto per cause naturali, il suo non è un caso di malasanità. Dovrebbe essere lo stato  a pretendere quelle risposte che non sono ancora arrivate, per evitare che una tragedia personale diventi qualcosa di assai più grave : un fatto collettivo.

Il potere dichiara che il giovane arrestato di nome Gesù figlio di Giuseppe è morto perché aveva le mani bucate e i piedi pure, considerato che faceva il falegname e maneggiando chiodi si procurava spesso degli incidenti sul lavoro. Perché parlava in pubblico e per vizio si dissetava con l´aceto, perché perdeva al gioco e i suoi vestiti finivano divisi tra i vincenti a fine di partita. I colpi riportati sopra il corpo non dipendono da flagellazioni, ma da caduta riportata mentre saliva il monte Golgota appesantito da attrezzatura non idonea e la ferita al petto non proviene da lancia in dotazione alla gendarmeria, ma da tentativo di suicidio, che infine il detenuto è deceduto perché ostinatamente aveva smesso di respirare malgrado l’ambiente ben ventilato. Più morte naturale di così toccherà solo a tal Stefano Cucchi quasi coetaneo del su menzionato”.
(Erri De Luca)