(Enrica Conti)

DICHIARAZIONE
Io dichiaro lo stato di gioia senza fine
e il diritto di ognuno ad ogni privilegio
io dico che il dolore è il grande sacrilegio
giacché esiste abbondanza di rose e di pane.
Io contesto la legittimità della guerra
la civilizzazione in...

DICHIARAZIONE

Io dichiaro lo stato di gioia senza fine
e il diritto di ognuno ad ogni privilegio
io dico che il dolore è il grande sacrilegio
giacché esiste abbondanza di rose e di pane.

Io contesto la legittimità della guerra
la civilizzazione in braccio ai mercenari
la giustizia che uccide ed i suoi ambasciatori
la coscienza coperta da un palmo di terra.

Ho guardato il millennio morire bruciando
dalla cenere aspetto che un mondo migliore
sorga presto e perciò ho smesso di aspettare
e mi sporco le mani e mi spingo sul fondo.

Che la mia donna brilli ad ogni ora del giorno
senza dissimulare mai la sua stanchezza
sotto l’ombretto sparso sulla sua bellezza
senza mai rimandare quest’amore ora eterno.

Che mio figlio sia degli uomini e non degli adulti
e che sia ciò che vuole e che sia solo quello
che mi sia un compagno un amico un fratello
non la generazione che mi lancerà insulti.

E che i padri scendano dalla croce dei ruoli
e che trovino il tempo di amarsi fra loro
dopo tutta una vita di morto lavoro
dopo tutto il lavoro per stare da soli.

Io dichiaro lo stato di gioia permanente
senza musica e senza nessuna poesia
senza prima aspettare un qualunque messia
senza prima votarlo in nessun parlamento.

Io dichiaro che il caso ormai è stato abolito
responsabilità è degli esseri umani
la forza la portiamo nelle nostre mani
non in quelle dei soldi, di dio, dello stato.

E se vuoi unirti a noi devi esser te stesso
c’è posto per ognuno e di qualunque età
siamo tutti giganti senza umiltà
siamo sempre in cammino e iniziamo da adesso.

Io dichiaro lo stato di piena libertà.

Il 3 maggio 1934 nasce ad Alessandria d’Egitto Georges Moustaki, all’anagrafe Giuseppe Mustacchi. Cantante, paroliere. Nato in una famiglia greca di origini italiane e naturalizzato francese.

(Ⓐ Walter Ranieri-vento ribelle)

Shady Habash
Aveva 22 anni.
E’ morto nel carcere-inferno di Tora, lo stesso dove é rinchiuso Patrick Zaky.
Ma di Shady non se ne parlerà più di tanto, cosi’ come si tace sui 1.500 detenuti in una delle prigioni più infami del mondo.
Shady non aveva...

Shady Habash
Aveva 22 anni.
E’ morto nel carcere-inferno di Tora, lo stesso dove é rinchiuso Patrick Zaky.
Ma di Shady non se ne parlerà più di tanto, cosi’ come si tace sui 1.500 detenuti in una delle prigioni più infami del mondo.

Shady non aveva nessun legame con qualche Paese Bello, era solo un regista alle prime armi che si dilettava con i video e sognava un giorno di girare un film, “un film vero” che raccontasse verità sul suo Paese.

Il cantante egiziano Ramy Essam, gli propose due anni fa di girare un video clip della sua nuova canzone, una satira sul Governo egiziano, criminale e corrotto e sul Presidente Al Sissi.

Ramy Essam si rifugio’ all’estero appena ebbe sentore che la Polizia lo stava cercando, ma Shady non fu altrettanto veloce a fuggire.
Arrestato e condotto nelle celle di Tora in attesa di un processo mai celebrato.

800 giorni di prigionia, di botte, di violenze, di umiliazioni.
800 giorni di speranza che si andavano consumando nell’isolamento a cui era costretto perché ritenuto, a causa delle sue idee, un soggetto pericoloso.
800 giorni ad aspettare che qualcuno dei Paesi Belli facesse qualcosa, intervenisse con una petizione, accendesse non dico una fiaccola ma almeno una candela.

Niente, nemmeno un sospiro, abbandonato a se stesso, lasciato in balia di un regime criminale che voleva distruggerlo.
E l’hanno ucciso.
A soli 22 anni, cancellando il suo sorriso.

Qualche mese fa, Vi parlai di Lui e dei suoi compagni incarcerati per “non essere d’accordo” col dittatore.
Temevo per la sua vita e per la vita di tutti gli altri.
Adesso é morto e certamente qualcuno, per un giorno o forse due, parlerà di Lui.

Poi silenzio.
Stramaledetto silenzio che circonda l’inumano regime cairota.
Shady non era Patrick e nemmeno Giulio.
Era solo un ragazzo che sognava il suo Paese libero dalla paura, dalla tirannia, dalla soppressione di tutte le Libertà.
Ha pagato con la vita il suo sogno.

E adesso, forza, inveite, mettete faccine con lacrime, insultate i carnefici, provate pietà e scrivete RIP sulla sua lapide…..
Ma solo fino a domani.
Poi lasciatelo marcire nel silenzio dove l’avete lasciato fino a ieri.

Addio Shady

(Claudio Khaled Ser)

Cambiamenti climatici, ‘se perdiamo gli insetti tutto potrebbe collassare’
Poco più di un anno fa mi occupai del dramma della drastica diminuzione degli insetti. Lo spunto era tratto da uno studio del biologo americano Brad Lister che aveva scoperto...

Cambiamenti climatici, ‘se perdiamo gli insetti tutto potrebbe collassare’

Poco più di un anno fa mi occupai del dramma della drastica diminuzione degli insetti. Lo spunto era tratto da uno studio del biologo americano Brad Lister che aveva scoperto che in una foresta pluviale portoricana gli insetti si erano ridotti del 98% rispetto a 35 anni prima.

Poco più di un anno fa mi occupai del dramma della drastica diminuzione degli insetti. Lo spunto era tratto da uno studio del biologo americano Brad Lister che aveva scoperto che in una foresta pluviale portoricana gli insetti si erano ridotti del 98% rispetto a 35 anni prima.

Trascorre appunto poco più di un anno e la scomparsa in atto degli insetti riceve purtroppo una conferma da parte di un team di ricercatori tedeschi, russi e olandesi in un articolo pubblicato su Science e riguardante questa volta il mondo intero. Infatti gli scienziati non hanno svolto una ricerca autonoma, ma hanno analizzato 166 ricerche svolte su 1.676 diversi siti del pianeta.

Risultato della comparazione: gli insetti terrestri diminuiscono dello 0,98% all’anno. In controtendenza, gli insetti che invece vivono in ambienti acquatici sembrano aver registrato un aumento medio dell’1,08% annuo. Ma tale aumento potrebbe essere anche determinato non solo dalla migliorata qualità delle acque, ma anche dalla alterazione del deflusso con la realizzazione di invasi, e dalla diminuzione dei predatori.

Ad offuscare ancor più il quadro, contribuisce un’altra ricerca di poco tempo fa i cui risultati sono riportati dal The Guardian (come la ricerca di Lister) secondo cui più del 40% degli insetti ancora esistenti rischia di scomparire nelle prossime decadi. Le cause dello sterminio sono le solite, arcinote: perdita dell’habitat a causa dell’agricoltura intensiva e dell’incremento dell’urbanizzazione; inquinamento, principalmente da pesticidi e fertilizzanti sintetici; fattori biologici, inclusi agenti patogeni e specie introdotte; cambiamento climatico.

E non è necessario essere entomologi o biologi per comprendere che la drastica riduzione degli insetti non può non avere riflessi sulla catena alimentare e infine sull’uomo stesso. Basti pensare che il 75% delle colture alimentari del mondo dipende da insetti impollinatori. Basti pensare in proposito anche alla drastica riduzione in questi anni del numero delle api (“colony collapse disorder”), principalmente a causa dei fitofarmaci utilizzati in agricoltura.

Del resto, anche l’uomo della strada si può rendere conto di quanto sopra nel suo piccolo. È quello che viene definito “effetto parabrezza”, e cioè la diminuzione degli insetti che – purtroppo – rimangono spiaccicati sul parabrezza dell’auto in corsa.

“È come se stessimo rendendo vasti tratti della terra inospitali per la maggior parte delle forme di vita. Se perdiamo gli insetti, tutto potrebbe collassare”, ha detto Dave Goulson, professore all’Università del Sussex. Direttamente o indirettamente, l’uomo sta defaunando (neologismo che purtroppo si è dovuto coniare) il pianeta, e su questo argomento tornerò nel mio prossimo post.

di Fabio Balocco

«Chi ha tanti soldi è perché lavora tanto, io mi accontento di quello che mi danno il buon Dio e la fortuna»

Il lavoro lo esclude a priori.
(Frankie hi-nrg)

(nonleggerlo)

Olanda, da Fca a Ferrero e Mediaset ecco i gruppi italiani con sede ad Amsterdam. E la Ue vieta di escluderli dagli aiuti pubblici
di Mauro Del Corno
I gruppi italiani che hanno sede o filiali nei Paesi Bassi sono tanti. Fca e Ferrari hanno qui la...

Olanda, da Fca a Ferrero e Mediaset ecco i gruppi italiani con sede ad Amsterdam. E la Ue vieta di escluderli dagli aiuti pubblici

di Mauro Del Corno

I gruppi italiani che hanno sede o filiali nei Paesi Bassi sono tanti. Fca e Ferrari hanno qui la loro sede legale, la Exor della famiglia Agnelli quella fiscale. Sede legale ad Amsterdam anche per Mediaset, ma ad aver creato holding qui sono pure alcune delle più importanti partecipate italiane: Eni, Enel e Saipem. In viaggio verso il paese dei tulipani anche Campari che sta per trasferire qui la sua sede. E poi Luxottica, qui dal 1999, Ferrero, Illy, Telecom Italia, Prysmian e la Cementir di Caltagirone.
La banche tendono invece a preferire i regimi fiscali di Irlanda e Lussemburgo. Uno dei grimaldelli impiegati negli ultimi anni per recuperare una piccola parte dei proventi fiscali sottratti in questo modo agli altri Paesi è stato contestare gli aiuti pubblici, proibiti da Bruxelles quando ledono la concorrenza. Ma la Commissione proprio in questi giorni ha sancito che – in nome della libera circolazione dei capitali – i piani di salvataggio pubblico adottati a causa dell’emergenza Covid non possono escludere chi ha la sede in un altro Stato.

… L’Olanda, ad esempio, non fa parte della lista dei paradisi fiscali stilata dall’Unione europea. Esclusione dettata da ragioni politiche. In materia di fisco l’Ue richiede l’unanimità dei voti (quindi compresi quelli di Olanda e Lussemburgo) per apportare modifiche. Le grandi aziende europee che approfittano dei vantaggi del fisco arancione fanno pressione sui loro governi per fare in modo che nulla cambi. Anche l’Ocse dispone di dati che sarebbero preziosi per aumentare la trasparenza sulle pratiche fiscali del paese, però non li rende pubblici a causa di veti di paesi membri. Così si va per deduzioni e per vie indirette.

L’Olanda è un buco nero che, ogni anno, risucchia dai paesi membri fino a 72 miliardi di euro di profitti aziendali. Una montagna di denaro che ricompare, molto rimpicciolita, ad Amsterdam. Quasi 10 miliardi di euro finiscono al fisco olandese, il resto rimane nelle casse delle multinazionali. Le stime sono dell’economista Gabriel Zucman, tra i più esperti e attenti osservatori del fenomeno a livello globale. Dalla sola Italia spariscono ogni anno profitti per quasi 30 miliardi di euro e di questi più di 3 miliardi finiscono in Olanda che in questo modo sottrae quasi un miliardo di euro all’anno al fisco italiano. Per contro quasi il 40% del gettito da tassazione sui profitti di impresa del paese dei tulipani deriva da questo scippo.

(…) Non è un caso se nella classifica globale dell’associazione Tax Justice Network, che denuncia e combatte pratiche fiscali scorrette, i Paesi Bassi vengano solo dopo Isole Vergini, Bermuda e Isole Cayman quanto a opacità delle pratiche fiscali. Una delle tecniche utilizzate è quella di valutare la discrepanza tra le risorse che una società possiede in un determinato paese (dipendenti, uffici) e gli utili che qui realizza. Incrociando questi dati si scopre che ogni singolo, e a quanto pare fenomenale, dipendente lussemburghese genera profitti per oltre 8 milioni di euro. Uno svizzero 760mila, in Olanda 530mila. La media di tutti gli altri paesi europei è di 60mila euro per dipendente, con Italia e Germania allineate intorno ai 42mila e Francia a 33mila.

…In questa fase drammatica per il futuro economico dell’Europa i governi avrebbero avuto un’arma in più. Se la Commissione Ue non si fosse messa di mezzo. Francia, Danimarca e Polonia hanno infatti deciso di escludere dall’erogazione di aiuti pubblici le società con sedi in paradisi fiscali. Bruxelles, che predica bene ma razzola molto male, ha però puntualizzato che questa distinzione è contraria ai principi della libera circolazione dei capitali a sci sono improntati i trattati europei. Davvero un peccato anche perché sarebbe giusto che i contribuenti che pagano gli aiuti sapessero a chi stanno dando i loro soldi

Editorial & Political Cartoons

Editorial & Political Cartoons

Stamani è uscita un’intervista a Giuseppe Conte. Il giornalista che fa le domande? Massimo Giannini.
Un invito: leggetela. È sulla pagina di Conte. Ma non solo per gli elementi. Che sono interessanti, sì. Ma non sono il punto centrale del pezzo....

Stamani è uscita un’intervista a Giuseppe Conte. Il giornalista che fa le domande? Massimo Giannini.

Un invito: leggetela. È sulla pagina di Conte. Ma non solo per gli elementi. Che sono interessanti, sì. Ma non sono il punto centrale del pezzo. Leggetela per un’altra cosa: per capire la differenza tra un certo tipo di rapporto tra politica e giornalismo ed un altro tipo di rapporto tra politica e giornalismo.

Lato intervistatore, c’è infatti qualcosa che non si nota spesso: un giornalista che non accomoda il politico. Ma che, incredibilmente per questi tempi, fa il suo mestiere: fa domande. A volte semplici, a volte (molto) più difficili. Che hanno l’obiettivo che un giornalista dovrebbe avere: raccogliere i dubbi e gli interrogativi del pubblico e portarli alla sua attenzione con risposte. Si parla infatti anche di patrimoniale, ritardi, mascherine, strappi nella maggioranza. Di tasti spesso dolenti. E – pensate – a volte si osa fare anche un po’ di sana giornalistica provocazione.

Dall’altro lato, quello dell’intervistato? C’è un qualcosa che in molti politici non accettano: stare al gioco. Non ci sono fughe, non ci sono risposte piccate. C’è l’accettare le regole del gioco dell’informazione di un sistema democratico. E quindi, intrinsecamente, accettare il rischio politico di esporsi. Preferendo l’endemicità di quel rischio piuttosto che interviste accomodanti, di miele. Prova di questo accettare le regole? Che Conte l’intervista l’abbia diffusa sulla sua stessa pagina.

Ecco. Sapete allora qual è il punto? Lasciamo perdere la retorica, la politica. Lasciamo perdere giganti, nani, com’è bravo questo e com’è bravo quello. Mettiamo da parte gli applausi per Giannini e Conte. Facciamo finta che i due fossero altri, chiunque altro.

Il punto è che, sinceramente, questa è la normalità. La normalità del rapporto tra politica e giornalismo.

Una normalità, ci perdonerete, che vorremmo però vedere più spesso. Specie tra quei politici e quei giornalisti che non sanno neanche dove sta di casa. E che ogni volta che si incontrano il livello di quel rapporto non lo fanno scendere.

Ma lo seppelliscono.

(Leonardo Cecchi)

Fare politica, coi nostri gesti, da domattina
di Alessandro Giglioli
Gli Stati Uniti, che in confronto a noi sudeuropei “bizantini” sono un Paese semplice, a volte aiutano anche a capire meglio le cose, proprio per la loro minore complessità.
Per...

Fare politica, coi nostri gesti, da domattina

di Alessandro Giglioli

Gli Stati Uniti, che in confronto a noi sudeuropei “bizantini” sono un Paese semplice, a volte aiutano anche a capire meglio le cose, proprio per la loro minore complessità.

Per esempio adesso, con la storia delle mascherine.

Dall’Atlantico al Pacifico si è diffuso infatti un vasto movimento contro l’uso delle mascherine, viste come un’impropria imposizione dello Stato e addirittura “l’anticamera del comunismo”.

Questo è scritto sui cartelli che, accanto alle bandiere a stelle strisce, vengono inalberati nei rally “Take off your masks”, dal Kentuky all’Oregon, dal Texas all’Ohio.

Una sorta di Anti-Mask League, coccolata dal presidente Trump che ha definito questi manifestanti «brave persone arrabbiate».

E in tutta la federazione i politici vicini a Trump presenziano ad appuntamenti pubblici ostentatamente senza mascherine, compreso il vicepresidente Pence addirittura in visita in un ospedale.

Sappiamo a cosa servono le mascherine, quelle “di base” che abbiamo tutti, chirurgiche o di stoffa: non a difendere se stessi, ma gli altri.

Sono altruiste, come ha spiegato qualche settimana fa il dottor Alessandro Gasbarrini nel tutorial che fece il giro dei social.

Servono perché molti di noi sono portatori sani asintomatici e possono contagiare gli altri senza saperlo e così si è diffuso per mesi il virus. Quindi ci sottoponiamo tutti a questa rottura di scatole perché se appunto lo facciamo tutti, nessuno o quasi viene più contagiato.

Altruismo, come diceva Gasbarrini. Interesse per gli altri. Nel caso specifico, con qualcosa in più: è cura dei più deboli – anziani, malati etc – che sappiamo essere le vittime principali di questo virus.

Protestare contro le mascherine è quindi protestare contro l’altruismo.

È brandire l’egoismo individualista. È fregarsene dei più deboli, anzi fargli del male sapendo di farglielo.

E appunto, questo spiega in modo semplice il concetto di destra, almeno in America, dove è tutto più semplice. Destra è fregarsene degli altri e soprattutto dei più fragili .

Il che, per contrasto, può aiutare a stilarci un codice di comportamento etico-politico anche qui in Italia, da domani. Ora che abbiamo capito meglio come siamo tutti intrecciati, come ogni gesto individuale ha un impatto sugli altri, quindi sociale.

Un codice che riguarda le mascherine, certo, ma anche tutto il resto. In cui dobbiamo ricordarci di “non fare cose di destra”, intendendo la lezione americana: cioè individualiste, egoiste, dannose per i più deboli.

(…) Che tuttavia non è, o almeno non vuole essere, un ricatto morale per nessuno. Già stare dentro le regole, seppur un po’ confuse, va benissimo, per carità. È solo per ricordarci che da domani (da sempre in verità, ma ancor più da domani) ogni nostro gesto è un gesto politico, è una scelta politica.

E più questi gesti sono lontani da quelli della Anti-Mask League, meno sono di estrema destra.

Bucchi

A Sassuolo la Lega trainata da questi due, rispettivamente consigliere e sindaco della città, ha davvero superato un limite di umanità: sta istituendo un registro dove inserire i nomi ed i cognomi dei cittadini che fanno la carità a chi ha bisogno e...

A Sassuolo la Lega trainata da questi due, rispettivamente consigliere e sindaco della città, ha davvero superato un limite di umanità: sta istituendo un registro dove inserire i nomi ed i cognomi dei cittadini che fanno la carità a chi ha bisogno e chiede qualche spicciolo, qualcosa da mangiare, una coperta.

Una lista di proscrizione contro chi vuole dare una mano. Che così verrà sanzionato.

Superando un attimo di sconforto, bisogna dirlo senza mezze misure: siete mostruosi in quella che ormai è davvero cattiveria. Mostruosi. Perché tirare su una lista di proscrizione per punire chi vuole aiutare qualcuno che ha fame, per giunta ora che siamo in pandemia, è disumano. Ed è altrettanto disumano il putrido meccanismo psicologico a medio-lungo periodo che cela questa vergogna: usare la paura della gogna e delle multe per iniziare a scoraggiare le persone ad essere altruiste. Per incentivarle a non pensare a chi non ha niente.
Un qualcosa di aberrante, umanamente prima che politicamente.

E che davvero fa porre una domanda.

Ma come diavolo fate a tirar fuori tutta questa cattiveria? Ma la sera, quando tornate a casa dalle vostre famiglie e vi mettete a tavola, come diavolo fate a sorridere, scherzare, sapendo di aver anche solo pensato di fare una cosa del genere? Pensando che ci sarà una donna, un uomo di cinquanta, sessanta, settant’anni che a causa vostra quel giorno non avrà racimolato quella “fortuna” di dieci/quindici euro per sfamarsi?

Si rimane allibiti.
E l’unica che si riesce a dire è ancora una volta “complimenti” ai leghisti per averci dimostrato per l’ennesima volta di cosa sono capaci.

(Leonardo Cecchi)

Dopo uno dei servizi più bassi mai andato in onda nella storia di un programma che certo non spicca per qualità e cultura, Michelle Hunziker se ne esce su Instagram con una giustificazione tra il vergognoso e surreale.
“Ciao ragazzi, ho visto che si...

Dopo uno dei servizi più bassi mai andato in onda nella storia di un programma che certo non spicca per qualità e cultura, Michelle Hunziker se ne esce su Instagram con una giustificazione tra il vergognoso e surreale.

“Ciao ragazzi, ho visto che si è alzato un polverone incredibile di una fake news – ha scritto – Dicono che noi abbiamo offeso pesantemente una giornalista che si chiama Giovanna Botteri. Cosa assolutamente non vera perché noi di Striscia abbiamo mandato in onda un servizio a favore di questa giornalista, dicendo che tanti media e molti social l’hanno presa in giro per il suo look e invece noi prendiamo atto del fatto che si è fatta un’ottima messa in piega.“

Cara Michelle, quella “giornalista che si chiama Giovanna Botteri”, mentre tu – legittimamente – commentavi le papere su Canale 5, nel 1991 era in Russia per raccontare il crollo dell’Unione Sovietica e in Croazia per lo scoppio della guera d’indipendenza. È stata inviata speciale per oltre un lustro sotto le bombe nell’ex Jugoslavia. È stata in Iran, Sud Africa, Algeria, ha raccontato in diretta il dramma dell’esodo albanese, ha seguito il G8 di Genova, la guerra in Afghanistan, la Seconda guerra del Golfo, la presa di Baghdad e il rovesciamento di Saddam Hussein. Nei successivi 12 anni è stata corrispondente Rai negli Stati Uniti. Infine, a 61 anni, mentre altri colleghi sono pronti a ritirarsi, ha accettato l’ultima grande sfida della carriera: raccontare la Cina da Pechino, ritrovandosi nel bel mezzo della più grande pandemia globale della storia recente. Guardandola e mostrandocela coi propri occhi, dal di dentro, come ha sempre fatto, in oltre 30 anni di straordinaria carriera, con una professionalità, una capacità di raccontare e un’empatia – sì, anche quello – che davvero ha pochi paragoni nel giornalismo italiano.

Ma non è per tutte queste ragioni che ha il diritto di non essere giudicata per la “messa in piega”.
Ma semplicemente perché è una persona. Una professionista. Una donna.
Che ha il diritto di vestirsi, mostrarsi e presentarsi come sente di essere, senza dover spiegare o giustificare niente a nessuno. Mai. Esattamente come agli uomini non viene mai chiesto di fare.

Ed è sconcertante che sia proprio una donna – per di più impegnata nella difesa delle donne – a non capirlo e a doverselo far spiegare. Dimostrando, una volta di più, di non aver capito nulla – NULLA – di quello che è appena successo.

No, cara Michelle, non è una fake news. Si chiama body shaming. O, se preferisci bullismo. Tv spazzatura.
E c’è una e una sola cosa che ha senso fare in questi casi: chiedere scusa. Non (solo) a Giovanna Botteri. Ma a tutte le donne. E, in fondo, a tutti noi.

(Lorenzo Tosa)

(Vincenzo Tolli)